Alle 7 del mattino, è già caldo, nel soleggiato borgo dell’ascolano.

Il piccolo appartamento, troppo soffocante per sette persone, sembra bruciare.

Il cambio turno tra le operatrici è già avvenuto.

Attenta a Sonia. È più nervosa del solito -. Son le ultime parole della collega che lascia il turno.

– Bene… mi aspettano 24 ore di fuoco, in tutti i sensi – rispondo.

Sonia si alza. Inizia a borbottare: il bagno è già occupato.

– Esci, è un’ora che stai dentro!!!! – urla in pidgin, colpisce con i pugni la porta e aggiunge epiteti non traducibili (o forse non comprensibili).

Sonia, grandi occhi neri spalancati sul mondo, sempre all’erta, pronta a scattare.

Sonia, un corpo lunghissimo (sembra non finire mai), due gambe agili e scattanti che contrastano con quel modo di camminare lento e quasi impacciato. – Muoviti Sonia – ci si ritrova a ripetere ogni volta che si esce, – Muoviti, rimani sempre indietro! –

Sonia, la pelle color ebano, il viso dolce, i lineamenti tesi, la voce stridula, lo sguardo sempre tenuto basso, verso il terreno, come se guardare il cielo fosse troppo pesante per lei. Sguardo che diventa altero e fiero quando lo alza verso chiunque la interpelli

Sonia è:

Sonia è cattiva.

Sonia comanda.

Sonia urla.

Sonia picchia.

Sonia fa riti juju.

Sonia non dorme mai.

Sonia non fa avvicinare le due minute donne cinesi, ospiti dell’appartamento, alla cucina. Quando non c’è l’operatrice a pranzo Sonia impedisce loro di cucinare e di mangiare, almeno finché in cucina c’è lei e le altre 4 nigeriane.

Sonia fa paura dicono tutte le donne. Ma Sonia sa cantare.

E canta spesso, durante i viaggi in pulmino, al mattino sotto la doccia, mentre cucina, la sera prima di addormentarsi e le altre ragazze la seguono.

Sonia non ha cuore, ripetono spesso le piccole cinesine.

Ma è Sonia che quel giorno, mentre guardo dalla finestra mi si avvicina.

C’è un funerale. Dal portone esce la bara con pochi fiori e un misero seguito di persone, sei o sette, non di più.

Sonia stupefatta chiede: – Perché così poca gente?

– Probabilmente era una persona molto anziana, ha pochi parenti – deduco e spiego in maniera sbrigativa.

– Da noi è diverso! – riflette un attimo e chiama le sue compagne. Dice loro poche frasi in quel dialetto che a capirlo serve più intuito che conoscenza linguistica.

Sonia inizia un canto, le ragazze le vanno dietro facendole da coro.

È una nenia dolce, che entra nell’animo. È un accompagno verso un aldilà che, per chi crede, per chi ha estremo bisogno di credere, sarà diverso, migliore, più giusto. Un luogo dove non ci saranno persone per le quali sei soltanto merce di scambio o corpo da usare. Dove non esista colore, non esistano idiomi differenti, non esista il bisogno di fuggire per l’utopia e il sogno di una vita migliore.

Sonia canta e quel canto rimarrà aleggiante nell’aria di un piccolo ricordo.

Sonia ha picchiato un’operatrice, racconta Maria.

Sonia è tornata tardi e non ha consegnato il cellulare, s’è chiusa in camera ad urlare e piangere.

Sonia è cattiva ripetono le ragazze.

È lungo il giorno nella casa rifugio. Uscire da sola è un privilegio per le più anziane, ma ci son regole da rispettare anche per loro.

C’è noia e stanchezza nell’aria.

Arriva la sera e finalmente un poco di frescura. Tutte le ragazze si ritirano.

Ecco, era ora, un po’ di pace.

C’è silenzio. C’è quella tranquillità che trovarla di giorno tra gli sbraiti e le litigate non si riesce. Per l’operatrice che dal mattino si trova lì sembra un sogno.

In salotto, sprofondata nel divano, inizio a scrivere il diario di bordo, con le annotazioni salienti della giornata. C’è sempre qualcosa da riportare, di importante, d’allegro o triste, e magari non è neanche importante, ma informa chi entra in turno la mattina dopo com’è il clima nella casa.

Un rumore improvviso: una porta che si chiude. Lentamente, quatta quatta, Sonia entra nella stanza.

Si avvicina. Si siede e se ne esce con una frase talmente inaspettata, talmente strana che, anche se espressa in Italiano corretto, risulta incomprensibile a chi, come me, crede di conoscere Sonia.

– Posso leggerti le mie poesie? – – Cosa? –

– Posso leggere le mie poesie? – – Certo! –

Gli occhioni della ragazza si illuminano. In un lampo corre in camera e torna con un piccolo block-notes. Inizia a leggere. Son scritti in inglese. Quasi maledico gli anni di studio dimenticati.

Ma si comprende bene. Non sono poesie, sono lettere.

Sonia parla alla sua mamma: le racconta la tristezza, la malinconia, il dolore che prova.

Sonia scrive a sua sorella: le parla di una vita vissuta in strada, le parla della “maman” in italia, del sogno infranto di avere un bambino.

Le parla dei giorni rinchiusa in casa in un deserto sconosciuto, ad aspettare “clienti”, del suo bambino mai nato, di un viaggio nel buio verso una terra lontana dove tutto “sarà diverso”.

Narra loro della strada a Firenze. Racconta dell’infezione che l’ha resa sterile.

Rivela che quei: -Mamma qui tutto bene; sorella io sto bene – detti al telefono, a migliaia di chilometri di distanza ,son bugie.

Sonia è cattiva. Sonia ha gli occhi lucidi. Sonia piange.

Sonia non parla quasi mai. Sonia urla contro tutti, contro il mondo.

 

Mi domando ancora a distanza di anni:

Chissà se un giorno quelle lettere sian state spedite? Chissà se mamma e sorella prima o poi quegli scritti li abbiano letti e abbiano compreso e conosciuto Sonia? Chissà se avranno potuto riascoltare il suo canto?

 

Antonella Pampolini – Centro antiviolenza Donne e giustizia di Ancona